di Flavio Felice
Più volte è stato ripetuto che cosa non è la Dottrina sociale della Chiesa. In primo luogo si suole affermare che essa non è un ricettario delle buone azioni; in secondo luogo, per Dottrina sociale della Chiesa non dobbiamo neppure intendere un’asettica analisi sociologica dove gli elementi dell’indagine (le persone) appaiono come una caricatura antropologica: homo oeconomicus, politicus, sociologicus, etc.
Ebbene, chiarito che cosa la Dottrina sociale della Chiesa non può essere, tentiamo di comprendere che cosa essa realmente sia. In primo luogo, essa è una prospettiva sull’uomo, un’antropologia che assume la dimensione relazionale come ragione fondante la sua prassi. Dunque, la Dottrina sociale della Chiesa è prassi sociale relazionale, ovvero un agire con gli altri ed un agire per gli altri che evidenzia la realtà unitaria della pastorale sociale. In secondo luogo, in forza di una simile dimensione antropologica, gli interpreti della Dottrina sociale della Chiesa operano a partire dalla consapevolezza che le ragioni delle persone sono sovra ordinate alle ragioni delle strutture sociali: Stati, imprese, classi, partiti e via dicendo. In tal senso, tornano alla mente le parole della Redemptor Hominis, che rimandano alla suggestiva frase con cui Kierkegaard intese definire il paradosso cristiano: “Il genere umano ha la proprietà, perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che il singolo è più alto del genere”. Una frase che, tra l’altro, commenta Augusto Del Noce, rappresenta l’antitesi assoluta di quanto afferma Marx nella sesta di quelle Tesi su Feuerbach che compendiano il suo pensiero filosofico: “l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali”. Il cuore della riflessione e della prassi cattolica nel sociale è racchiuso tutto in questa rivendicazione del primato della persona; un personalismo che diventa strumento metodologico per l’indagine in ordine alla scoperta del come e del perché dei fenomeni sociali, ma è anche uno strumento volto alla prassi sociale per contribuire a rendere più umano il mondo cui viviamo.
I pilastri sui quali poggia il doppio profilo della Dottrina sociale della Chiesa – la comprensione scientifica e l’azione nel contesto unitario del riferimento teologico pastorale – sono il principio di solidarietà e quello di sussidiarietà. Storicamente, non sono mancati interpreti che hanno tentato di comprendere i due principi l’uno a scapito dell’altro, mostrando erroneamente che la solidarietà e la sussidiarietà rappresentano due dimensioni antitetiche, in quanto il prevalere dell’una farebbe retrocedere l’altra, e viceversa. È stato un merito di Giovanni Paolo II, al contrario, quello di aver mostrato la complementarietà dei due principi, evidenziando l’impossibilità di concepire coerentemente, da un punto di vista cristiano, la sussidiarietà a prescindere da un’altrettanto coerente comprensione della solidarietà. In tal modo, la solidarietà è liberata dal rischio di apparire come l’evasione di un certo numero di pratiche da parte di un sistema burocratico impersonale che pretende di conoscere il bene degli individui; e la causa efficiente della solidarietà smette di essere lo “Stato” onnipotente. Nelle società contemporanee, estremamente complesse, nessun governo, partito ed organizzazione burocratica può arrogarsi il diritto di conoscere quale possa essere il bene di coloro che intende “assistere”. Sicché, il principio di sussidiarietà disegna l’articolazione sociale, umanamente più coerente, perché chi è più prossimo al portatore del bisogno si faccia carico – in base alle proprie possibilità – della sua soluzione. In questo caso, non si identifica un unico soggetto responsabile del benessere ovvero della giustizia sociale al quale le persone sarebbero obbligate a cedere la loro quota di responsabilità e, di conseguenza, di libertà. La “soluzione personalista-relazionale”, proposta dalla Dottrina sociale della Chiesa, in pratica, incontra il principio di solidarietà sul terreno del principio di sussidiarietà. Essa si oppone alla “soluzione totalitaria-hobbesiana”, in cui il tema della solidarietà è ricondotto nell’ambito del paternalismo di stato, e si caratterizza per il riconoscimento civile di quelle attività poste in essere da persone libere e responsabili per dar vita ad organizzazioni sociali con l’obiettivo di rispondere alle più svariate domande che provengono dalla società civile. È questa: la solidarietà vissuta alla luce del principio di sussidiarietà, in sostanza, a rappresentare la pratica della “giustizia sociale” cristianamente intesa.
In questo contesto si inserisce l’iniziativa dell’Arcidiocesi di Milano di dar vita ad un fondo di dotazione iniziale di un milione di euro per le famiglie in difficoltà. È quanto ha annunciato l'arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, durante l'Omelia pronunciata nella messa di Natale al Duomo di Milano: “In questa Notte Santa, come Arcivescovo di Milano mi appello alla responsabilità dei singoli e delle comunità cristiane della diocesi e propongo di costituire il ‘Fondo famiglia-lavoro’ per venire incontro a chi sta perdendo l’occupazione. Come avvio di questo fondo, attingendo dall’otto per mille destinato per opere di carità, dalle offerte pervenute in questi giorni ‘per la carità dell’Arcivescovo’, da scelte di sobrietà della diocesi e mie personali metto a disposizione la cifra iniziale di un milione di euro”.L’iniziativa dell’Arcidiocesi di Milano si inscrive nella lunga tradizione di pastorale sociale dalla Chiesa italiana e del mondo e, se ben analizzata, offre numerosi spunti per tentare di andare ben oltre la contrapposizione ideologica tra mercato e apparati statali burocratici. Non sono mancati, anche in questa occasione, coloro che hanno lamentato il fatto che lo Chiesa starebbe prendendo il posto dello Stato, come se quest’ultimo fosse per definizione lo strumento unico ed il più adatto a rispondere alle esigenze di giustizia sociale. Se per mercato intendiamo il sistema di relazioni attraverso il quale persone e associazioni di persone ignoranti e fallibili, ma perfettibili, tentano di soddisfare le proprie aspettative, tentando di ricorrere alla soddisfazione delle aspettative altrui, allora non si tratta di declamare in modo ideologico i confini invalicabili ed angusti della società civile, per difendere una presunta sfera di competenza esclusiva dello Stato: una sfera che tende inesorabilmente ad ampliarsi fagocitando tutto quello che incontra, quanto di elaborare ordinamenti politici e giuridici conformi al sistema di libero mercato e alla democrazia e che possano consentire la soluzione di problemi allocativi relativi a beni e a servizi disponibili.
Più volte è stato ripetuto che cosa non è la Dottrina sociale della Chiesa. In primo luogo si suole affermare che essa non è un ricettario delle buone azioni; in secondo luogo, per Dottrina sociale della Chiesa non dobbiamo neppure intendere un’asettica analisi sociologica dove gli elementi dell’indagine (le persone) appaiono come una caricatura antropologica: homo oeconomicus, politicus, sociologicus, etc.
Ebbene, chiarito che cosa la Dottrina sociale della Chiesa non può essere, tentiamo di comprendere che cosa essa realmente sia. In primo luogo, essa è una prospettiva sull’uomo, un’antropologia che assume la dimensione relazionale come ragione fondante la sua prassi. Dunque, la Dottrina sociale della Chiesa è prassi sociale relazionale, ovvero un agire con gli altri ed un agire per gli altri che evidenzia la realtà unitaria della pastorale sociale. In secondo luogo, in forza di una simile dimensione antropologica, gli interpreti della Dottrina sociale della Chiesa operano a partire dalla consapevolezza che le ragioni delle persone sono sovra ordinate alle ragioni delle strutture sociali: Stati, imprese, classi, partiti e via dicendo. In tal senso, tornano alla mente le parole della Redemptor Hominis, che rimandano alla suggestiva frase con cui Kierkegaard intese definire il paradosso cristiano: “Il genere umano ha la proprietà, perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che il singolo è più alto del genere”. Una frase che, tra l’altro, commenta Augusto Del Noce, rappresenta l’antitesi assoluta di quanto afferma Marx nella sesta di quelle Tesi su Feuerbach che compendiano il suo pensiero filosofico: “l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali”. Il cuore della riflessione e della prassi cattolica nel sociale è racchiuso tutto in questa rivendicazione del primato della persona; un personalismo che diventa strumento metodologico per l’indagine in ordine alla scoperta del come e del perché dei fenomeni sociali, ma è anche uno strumento volto alla prassi sociale per contribuire a rendere più umano il mondo cui viviamo.
I pilastri sui quali poggia il doppio profilo della Dottrina sociale della Chiesa – la comprensione scientifica e l’azione nel contesto unitario del riferimento teologico pastorale – sono il principio di solidarietà e quello di sussidiarietà. Storicamente, non sono mancati interpreti che hanno tentato di comprendere i due principi l’uno a scapito dell’altro, mostrando erroneamente che la solidarietà e la sussidiarietà rappresentano due dimensioni antitetiche, in quanto il prevalere dell’una farebbe retrocedere l’altra, e viceversa. È stato un merito di Giovanni Paolo II, al contrario, quello di aver mostrato la complementarietà dei due principi, evidenziando l’impossibilità di concepire coerentemente, da un punto di vista cristiano, la sussidiarietà a prescindere da un’altrettanto coerente comprensione della solidarietà. In tal modo, la solidarietà è liberata dal rischio di apparire come l’evasione di un certo numero di pratiche da parte di un sistema burocratico impersonale che pretende di conoscere il bene degli individui; e la causa efficiente della solidarietà smette di essere lo “Stato” onnipotente. Nelle società contemporanee, estremamente complesse, nessun governo, partito ed organizzazione burocratica può arrogarsi il diritto di conoscere quale possa essere il bene di coloro che intende “assistere”. Sicché, il principio di sussidiarietà disegna l’articolazione sociale, umanamente più coerente, perché chi è più prossimo al portatore del bisogno si faccia carico – in base alle proprie possibilità – della sua soluzione. In questo caso, non si identifica un unico soggetto responsabile del benessere ovvero della giustizia sociale al quale le persone sarebbero obbligate a cedere la loro quota di responsabilità e, di conseguenza, di libertà. La “soluzione personalista-relazionale”, proposta dalla Dottrina sociale della Chiesa, in pratica, incontra il principio di solidarietà sul terreno del principio di sussidiarietà. Essa si oppone alla “soluzione totalitaria-hobbesiana”, in cui il tema della solidarietà è ricondotto nell’ambito del paternalismo di stato, e si caratterizza per il riconoscimento civile di quelle attività poste in essere da persone libere e responsabili per dar vita ad organizzazioni sociali con l’obiettivo di rispondere alle più svariate domande che provengono dalla società civile. È questa: la solidarietà vissuta alla luce del principio di sussidiarietà, in sostanza, a rappresentare la pratica della “giustizia sociale” cristianamente intesa.
In questo contesto si inserisce l’iniziativa dell’Arcidiocesi di Milano di dar vita ad un fondo di dotazione iniziale di un milione di euro per le famiglie in difficoltà. È quanto ha annunciato l'arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, durante l'Omelia pronunciata nella messa di Natale al Duomo di Milano: “In questa Notte Santa, come Arcivescovo di Milano mi appello alla responsabilità dei singoli e delle comunità cristiane della diocesi e propongo di costituire il ‘Fondo famiglia-lavoro’ per venire incontro a chi sta perdendo l’occupazione. Come avvio di questo fondo, attingendo dall’otto per mille destinato per opere di carità, dalle offerte pervenute in questi giorni ‘per la carità dell’Arcivescovo’, da scelte di sobrietà della diocesi e mie personali metto a disposizione la cifra iniziale di un milione di euro”.L’iniziativa dell’Arcidiocesi di Milano si inscrive nella lunga tradizione di pastorale sociale dalla Chiesa italiana e del mondo e, se ben analizzata, offre numerosi spunti per tentare di andare ben oltre la contrapposizione ideologica tra mercato e apparati statali burocratici. Non sono mancati, anche in questa occasione, coloro che hanno lamentato il fatto che lo Chiesa starebbe prendendo il posto dello Stato, come se quest’ultimo fosse per definizione lo strumento unico ed il più adatto a rispondere alle esigenze di giustizia sociale. Se per mercato intendiamo il sistema di relazioni attraverso il quale persone e associazioni di persone ignoranti e fallibili, ma perfettibili, tentano di soddisfare le proprie aspettative, tentando di ricorrere alla soddisfazione delle aspettative altrui, allora non si tratta di declamare in modo ideologico i confini invalicabili ed angusti della società civile, per difendere una presunta sfera di competenza esclusiva dello Stato: una sfera che tende inesorabilmente ad ampliarsi fagocitando tutto quello che incontra, quanto di elaborare ordinamenti politici e giuridici conformi al sistema di libero mercato e alla democrazia e che possano consentire la soluzione di problemi allocativi relativi a beni e a servizi disponibili.
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