Il Darfur, letteralmente
‘terra dei Fur’, è la regione che si estende ad occidente del Sudan, di cui è parte integrante e si divide in: Darfur meridionale, settentrionale e occidentale. Esso è abitato in parte da tribù nomadi arabo-musulmano dedite alla pastorizia, e in parte da tribù stanziali africane di religione animiste, cristiane e anche musulmane dedite all’agricoltura. Il governo sudanese, con sede a Khartoum, è guidato dal presidente Omar el-Beshir, islamico e tendenzialmente integralista, che nella gestione della cosa pubblica si ispira ai criteri della legge islamica, la Sharia. La linea politica del governo sudanese è accentratrice, contraria alle ipotesi federaliste o scissioniste abbracciate dai movimenti di opposizione e di resistenza del Darfur. Nella regione sud occidentale del Sudan, dal febbraio 2003, agiscono i ribelli dell’Esercito di liberazione del Sudan (Sla) e del Movimento per la giustizia e l’eguaglianza (Jem) contro cui si sono scatenati gli Janjaweed, i
‘diavoli a cavallo’, miliziani arabi filo governativi che il governo di Khartoum arma e finanzia. Il governo sudanese è appoggiato di Cina, Russia e Iran e in maniera più defilata, del Canada. I ribelli invece sono sostenuti da Israele e Usa. Il sottosuolo del Darfur è ricco di risorse minerarie e petrolifere che ora sono sfruttate prevalentemente dai cinesi e canadesi. Risorse che fanno gola anche alle altre potenze mondiali che finora invece sono state escluse. I Paesi confinanti si inseriscono nel gioco della destabilizzazione dell’ex protettorato inglese, con aiuti al governo o ai ribelli, incursioni in territorio sudanese, speculazioni sul flusso dei profughi. Particolare importanza in tal senso riveste il Ciad. Si stima che a causa del conflitto in corso nel Darfur siano morte quasi 200mila persone e oltre 2,5 milioni siano i profughi. Molti villaggi, si stima almeno 200, sono stati bruciati e saccheggiati e i loro abitanti hanno subito uccisioni, mutilazioni, torture fisiche e psicologiche. Tutti atti che rendono chiaro quanto si voglia impedire la sopravvivenza dell’etnia africana che popola la regione. Sono innumerevoli anche gli stupri e i rapimenti di donne e bambini. Molti degli adolescenti rapiti sono, se donne vendute come schiave nei Paesi arabi del golfo, se maschi reclutati tra le fila dei ribelli o dei miliziani. In Darfur fino allo scorso 31 dicembre, come osservatori e per proteggere i civili, erano stati dispiegati, dal 2004, 7500 peacekeepers africani sotto l’egida dell’Unione Africana (Ua). La missione che era denominata ‘Amis’ ha fallito nel compito affidatogli perchè non è riuscita ad imporre la sua autorità nella regione. I soldati del contingente dell’Ua più volte sono stati attaccati sia dai ribelli sia dai miliziani filo governativi subendo perdite in mezzi e uomini e per non diventare anch’essi vittime del conflitto si sono dovuti barricare nei loro campi fortificati. La missione, alla fine del suo mandato, ha registrato la perdita di oltre venti militari. La scelta di una forza di pace così composta, solo con soldati messi a disposizione da Paesi africani, era stata fatta per la volontà espressa dal governo di Khartoum. Dall’inizio dell’anno è iniziato, nella regione sudanese, il lento dispiegamento di una nuova forza di pace mista Onu/Ua denominata ‘Unamid’. Il nuovo contingente costituito da oltre 20mila caschi blu sostituirà l’Amis. Il regime sudanese, come aveva fatto con la precedente missione, anche stavolta ha accettato sul suo territorio solo militari provenienti da Paesi africani opponendosi al dispiegamento, che costituisce la parte più massiccia, dei caschi blu occidentali. Le autorità di Khartoum, nel giustificare il loro comportamento, si appellano al fatto che nutrono seri timori che l’operazione possa celare occulti tentativi, da parte di governi occidentali, di interferire sulla sua politica interna. La verità è un’altra. Nel Paese africano, le autorità sono consapevoli che la presenza in Darfur di un contingente di peacekeepers integrato con unità occidentali, meglio armate e meglio addestrate, sicuramente avrebbe facile controllo dei miliziani e dei ribelli ponendo forse, fine al conflitto in corso nel Paese. Le Nazioni Unite hanno le mani legate. L’organismo internazionale può intervenire in Darfur solo se è dichiarato che nel Paese africano è in corso un genocidio. La comunità internazionale non ha ancora fatto questa dichiarazione e appare difficile che la possa fare in futuro. Una mancanza questa, dovuta soprattutto al fatto che Cina e Russia, che appoggiano il governo sudanese, hanno posto sempre il loro veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il presidente americano George W. Bush, in molte occasioni, ha lanciato appelli alle Nazioni Unite per sollecitarne un intervento più deciso per fermare il conflitto in Darfur. L’amministrazione americana è stata finora l’unica ad utilizzare il termine genocidio per indicare la tragedia in corso in Sudan. Per l’Onu invece sebbene in Darfur siano stati compiute uccisioni di massa, quanto sta accadendo in quella regione, non è genocidio perché non è dimostrato l’intento di volerlo compiere. Questa negazione è resa ancora più grave dalle tante analogie con quanto è accaduto nel 1994 in Ruanda. Finora, Washington, sebbene con riluttanza, è restata in disparte per dare modo alle diplomazie internazionali di negoziare con il governo sudanese. Di fronte all’impotenza dimostrata dalla comunità internazionale, la Casa Bianca ritiene che ormai il tempo delle promesse sia finito e che il presidente sudanese el Bashir debba agire rispettando gli impegni presi. Finora non ne ha rispettato nemmeno uno continuando a bombardare indifesi villaggi, riunioni di capi religiosi e di ribelli, impedendo la distribuzione di cibo alla popolazione, facendo avvelenare i pozzi d’acqua potabile, distruggendo i raccolti e gli alberi da frutta. Inoltre, fatto ancor più grave, ha ordinato di dipingere i suoi aerei di bianco, nella speranza che potessero essere confusi con quelli dell’Onu, per trasportare armi ed eludere l’embargo che vige nei confronti del suo Paese. Le violenze in Darfur, alimentate da un’opportuna ‘strategia del terrore’, sono confermate anche dalle denuncie dei volontari, sudanesi e stranieri, che operano per conto delle organizzazioni umanitarie non governative (Ong). Questi ormai sono considerati, da chi ha interesse a fomentare le violenze nella regione occidentale sudanese, scomodi testimoni di quanto avviene in quei luoghi. Motivo questo che potrebbe giustificare il perché, in molte aree della regione, anche gli operatori umanitari sono stati attaccati dagli Janjaweed allo scopo di intimidirli e allontanarli. Una strategia, che sembra essere vincente in quanto diverse Ong, fortemente colpite negli ultimi mesi, hanno deciso di abbandonare il Paese lasciando senza assistenza migliaia di profughi. La situazione nei campi profughi è drammatica in quanto allestiti per ospitare 20mila persone ne raccolgono, in media, oltre 40mila. Durante il giorno i profughi sono assistiti dai volontari delle Ong, e vigilano sulla loro sicurezza i soldati dell’Ua. Al calare delle tenebre, sia gli operatori umanitari sia i militari, abbandonano i campi e si ritirano, per trascorrere la notte, nei loro accampamenti ritenuti più sicuri. I profughi a questo punto sono lasciati in balia delle incursioni degli Janjaweed e dei predoni. Un altro sconcertante dato emerge dall’attuale situazione nella regione sudanese. Un’indagine delle Nazioni Unite, i cui risultati sono stati riportati in un recente rapporto, ha indicato che in Darfur, nei villaggi distrutti o abbandonati dalla popolazione d’etnia africana, negli ultimi mesi si sono stabiliti oltre 30 mila arabi provenienti dal Ciad e Niger. Questa notizia conferma quanto ipotizzato finora che nella regione sudanese è in corso una vera e propria pulizia etnica. Il governo di Khartoum, che sta favorendo questi insediamenti, è quindi intenzionato a cambiare l’aspetto demografico dell’intera regione ripopolandola con genti d’etnia araba.