Gli otto gradi sotto zero mi danno il benvenuto nella Grande Mela, le strade con i tipici soffioni di vapori del sottosuolo mi dicono che la City è quella di sempre, tante volte vista nei molti films. Occultato dai vetri oscurati di una “mostruosa” limosine - scomodissima, più alcova e discoteca viaggiante che macchina per il transfert- raggiungo con alcuni amici l’hotel Doubletree Hilton nel cuore di Manhattan, a due passi dal Rockefeller Center. Qui faccio conoscenza di quattro italoamericani che gestiscono una sala da barba.. “Sim venuto a Nuova York nel 1936, da San Martino D’Agri, Padula e Buonabitacolo: Ci sim canosciuto e ham pigliato a faticà, prima a padrone dopo da suli. La fatica era forte, ma ham avuto soddisfazione, cresciuta la famiglia e fatto studiare i figli. I clienti ci stanno, il guadagno è bbuono”. Si chiama Renaissance il salone gestito dai quattro barbieri -i Barbieri di New York !- di origine italiana e meridionale, ubicato in una delle più frequentate vie di Manhattan, la Lexington Avenue che fa angolo con la 51a Street, all’interno dell’hotel Doubletree, sopra la metropolitana, a pochi metri dal Crysler Building e dal Grand Central Terminal. Nell’ora passata nel loro salone ho visto avvicendarsi una decina di persone. Taglio di capelli e shampo al costo di cinquanta dollari. Non è poco ed è spontaneo il calcolo del presunto guadagno giornaliero:”si guadambia tanto, ma non lo diciamo”. E’ un flusso consistente di clienti abituali, che lavorano negli uffici o nelle vicine attività commerciali, di gente di passaggio, che viene da Lower Manhattan a Midtown, arrivando da Brooklyn o dal Bronx e da Harlem. Ho letto che nel vicino Rockefeller Center lavorano sessantamila persone, ci sono quarantacinque ristoranti, cento negozi, girano duecentocinquantamila visitatori al giorno. “Io m’aggio fatto sette appartamenti a Nuova York, io tengo una villa nel Maine, io faccio pure attività nell’edilizia. Qua si sta bbuono però si fatica”. Hanno voglia di raccontarsi i Barbieri di New York, di incontrare il “paisan” che parli loro dell’Italia dove pure sono ritornati più di una volta. Incontrare il paesano è per loro come sentire il Paese. Si presentano senza timidezza, pronti a darti tutti i consigli utili per visitare questa città che amano moltissimo. Sono interessati a come sta l’Italia nella crisi e,ovviamente, a ciò che combina Berlusconi. “L’Italia finisce a puttane “-dicono con una punta di tristezza- “però quello ci sa fare; prima ha fatto bene e mo’si è imputtanito”. Mi fanno vedere un giornale newyorkese con foto e commenti: ”così perdiamo la faccia, mai l’Italia è stata presa così in giro, povera Italia”. Quattro barbieri italo-americani, una barberia a Lexington Avenue, lavoro dalla mattina alla sera senza pausa, 50 dollari a capello, 7 appartamenti a New York, una villa nel Maine, interessi collaterali nell’edilizia, famiglie tirate su con decoro e senza privazioni, benessere raggiunto e vissuto con semplicità. Lo racconterò al mio barbiere che resta in un vicolo stretto che fa angolo con via Pretoria, giusto per dare la differenza con New York. Sulla Fifth Avenue è un fiume disciplinato e impressionante di macchine, per la gran parte taxi. Tantissimi. I newyorkesi usano poco la macchina personale in città, per quanto costa tenerla in garage, per quanto è caro il parcheggio, per i tempi di percorrenza. Preferiscono i mezzi pubblici, i taxi costano poco, i bus e le metropolitane sono efficientissimi, i battelli per Brooklyn da Staten Island sono gratis. Viene da chiedersi se la scommessa della Fiat Cinquecento a New York sarà vincente o meno. Si vedrà, per ora non ne ho vista una. Resta fermo però il fatto che i newyorkesi per muoversi nei territori durante il week-end hanno bisogno delle loro grandi macchine e non di una topolino. Percorro la Fifth Avenue passando per il Rockfeller Center, St. Patrick’s, il Top of the Rock ,la statua del Prometeus, i murales di Sert, Radio City, Trump Tower, la Public Library. I diciannove edifici che formano il famoso Center realizzato dal famoso miliardario colpiscono, oltre che per la loro bellezza, anche per l’originalità urbanistica: ai piani superiori gli uffici; al piano terra i grandi atri aperti ai cittadini che diventano aree di sosta, luoghi di appuntamento, zone di relax e di shopping. Camminare! E’ proprio vero che New York si gira a piedi incontrando un mix di gente, di culture, di etnie, di tipi e di personaggi: bianchi e neri, latinoamericani, asiatici, europei; venditori ambulanti, impiegati. I neri , spesso enormi come armadi e con lo sguardo dolce e gentile; i giovani, vestiti come rapper tutti un po’ omologati tra loro con l’i Pod fisso alle orecchie e i pantaloni col cavallo alle ginocchia e una specie di cuffia in testa; le donne, alcune molto belle, curate nell’abbigliamento e nei modi. I brokers che lavorano nel Financial District, vestiti con abiti scuri, che sbucano velocissimi dalle subway a ondate nelle ore di punta, fermandosi ai carrettini in strada per la colazione, bagel e caffè bollentissimo. Poliziotti alti, belli, neri e bianchi, piccoli e grossi come nei films. Camminare e ancora camminare col naso in su. Palazzi così alti che non si vede la fine, vetri, specchi, metallo, mattoni a vista, pietra e luci, luci e ancora luci. Qui le luci nei palazzi non si spengono mai, neppure quelle degli uffici, nemmeno il sabato e la domenica. La notte è un lunapark abbagliante, affascinante, animato. E’ uno spettacolo vedere dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building o dal settantesimo piano del Top of The Rock la notte accendersi in milioni di luci sulla città. Solo l’energia elettrica generata dal Niagara ha potuto dare elettricità a una città affamata di luce. Dire luci vuol dire Times Square: un’esplosione di neon nel luogo che sembra il centro del mondo. Ad ogni ora del giorno e della notte una moltitudine di gente, di ogni razza e colore, si illumina con una moltitudine di luci, colori, suoni, rumori. E’ un caleidoscopio in continuo movimento dove ogni frammento colorato trova sempre il suo posto. E’ così anche per i taxi gialli, per le mostruose limousine, i poliziotti a cavallo, i lampeggianti della N.Y.D.Police e dei mitici pompieri. Solo i Marines in alta uniforme fanno un po’ tristezza quando, in questa esplosione di vita, cercano volontari per l’esercito. Qui c’è il mitico Hard Rock Cafè, tempio dei Beetles; c’è il Bubbagump di Forster; c’è il Planet Holliwood pronti ad accoglierti con hamburger e patatine fritte,cheesburger e patatine fritte, gamberetti e patatine fritte e… cocacola e bella musica. C’è Tois il regno dei giocattoli; c’è la sede del Times da dove la notte di ogni inizio dell’anno cala la sfera di cristallo. Camminare sempre camminare. Lasciando la Broadway verso la 42° Street trovo Bryant Park: un’oasi di verde e di tranquillità con decine e decine di newyorkesi a pattinare su una grande pista di ghiaccio circondata da pittoresche bancarelle e tipici negozietti. Sembra impossibile tutto questo a soli quattrocento metri dall’esplosione di Times Square e in mezzo a grandiosi grattacieli ! Ma New York è anche questo: improvvise oasi di relax, polmoni di verde e di tranquillità in mezzo a colate di cemento, acciaio e vetro. New York e un immenso e magnifico set cinematografico. Per rendersene conto basta passeggiare sul Ponte di Brooklyn e gettare “Uno sguardo dal ponte”con Arthur Miller sugli immigrati italiani in America; basta andare sulla Fifth Avenue e ricordarsi di “colazione da Tiffany”; andare al Washington Park e provare a camminare “A piedi nudi nel parco” ; incrociare le strade ai Five Points stando attenti alle “Bande di New York” di M. Scorsese, senza ritardare all’”Appuntamento al Plaza” per aver indugiato a vedere “King Kong” arrampicarsi ancora sull’Empire State Building. Basta sedersi con Woody Allen su una panchina del Pier17 e ammirare lo skyline di Manhattan per convincersi che tutta New York è stata e sarà sempre un magnifico set cinematografico dove il film nasce per magia. E Manco a dirlo, anche i Barbieri di New York mi consigliano di visitare il Grand Central Terminal dove fu girato il film “Gli intoccabili” di B. De Palma, con la leggendaria scena della carrozzella sulle scalinate della monumentale stazione. Mi consigliano pure di andare al ristorante “la Luna Piena” da Luigi, originario di Putignano: bistecca di carne argentina, scialatielli, nero d’Avola, lenticchie, fazooli, panelluccia fatta in casa. Ci lascio sessanta dollari anche se dichiaro che mi hanno mandato i Barbieri di New York. Meglio un buon panino a otto dollari, fatto con prodotti genuini italiani nella comunità di Little Italy. Ormai il quartiere italiano è cambiato. Dieci anni di nuova immigrazione hanno trasformato la comunità italiana e non solo. Trovo poche bandiere e pochi negozi con le insegne italiane perchè tutto è fagocitato dalla vicina Chinatown. Invasivi, intraprendenti, imprenditivi i cinesi monopolizzano le attività commerciali di questa e di altre zone. Qui restano la festa di San Gennaro, il ristorante “da Mario” dove fu girata la famosa scena de “Il Padrino”,poche famiglie italoamericane. Anche Harlem e il Bronx sono cambiati. Da quando un certo Bill Clinton ha insediato ad Harlem i suoi uffici il quartiere è abitato anche da bianchi e da borghes; resta però la comunità afroamericana più numerosa che vive nel ricordo di Malcom X, nei cori gospel della Chiesa Battista Abissina e nell’Harlem Market. Nel Bronx i latinoamericani ormai sono la maggioranza, sicchè a New York se non conosci l’inglese, ma te la cavi con lo spagnolo, non hai problemi perché la lingua più parlata è quella latinoamericana. Magica New York.
di Filippo Pugliese
di Filippo Pugliese