Una ricerca della Acli realizzata con 150 interviste realizzate nei paesi dell'Uninone Europea
“Io non riuscirei a fare un lavoro che non mi faccia sentire utile… non riesco a lavorare solo per i soldi”. “Il lavoro è importante, ma non può mai prevaricare la vita, che spesso è messa da parte”. “Per me il lavoro è una sfida, e non mi tiro mai indietro”. Sono alcune delle testimonianze dei giovani e delle donne intervistate dalle Acli internazionali (Fai) in 9 Paesi europei (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Olanda, Svizzera, Albania e Kosovo) per un’indagine qualitativa presentata oggi a Londra nel corso del seminario internazionale promosso dal Centro europeo per i problemi dei lavoratori (Eza). “L’umano lavoro. Biografie lavorative di donne e giovani in Europa” è il titolo della ricerca (oltre 150 interviste semi-strutturate) che mira ad indagare vissuti, bisogni e aspettative rispetto ai temi del lavoro e della rappresentanza.
“Da sempre ho sentito dire che il lavoro nobilita l’uomo – dice una donna francese –. Ora sono consapevole di quello che significa, ho preso coscienza di questa nobiltà che interessa qualsiasi lavoro dignitoso. La nobiltà consiste nel fatto che lavori per apportare qualcosa alla società. E anche il lavoro che può apparire più banale serve a mandare avanti questa macchina che è il mondo”. Malgrado la crisi e le difficoltà che giovani e donne incontrano, in Italia come in Europa - scrivono i ricercatori delle Acli – emerge dalle risposte «un grande investimento ideale nel lavoro, in termini di valori e significati». “Per me la vita dovrebbe essere incentrata, anche in ambito lavorativo, nell’aiutare gli altri”, dice una ragazza inglese.
I significati immateriali del lavoro prevalgono su quelli materiali nelle biografie dei giovani e delle donne. C’è chi considera il lavoro un mero strumento per la sicurezza e l’indipendenza economica; chi gli attribuisce invece la capacità di andare oltre e offrire un contributo più profondo alla vita, sia individuale che collettiva. «Sono sicuro di aver dato il mio contributo all’ufficio legale portando molti valori democratici nelle leggi del Kosovo», afferma un giovane avvocato kosovaro.
Sul piano individuale, “il lavoro è un modo per avere un’identità, perché purtroppo sei quello che fai. Per questo cerchiamo di fare qualcosa che ci rappresenti” dichiara una giovane lavoratrice francese. Il lavoro è anche una sfida: “Confrontarsi con se stesso, mettersi alla prova e mettersi in gioco per ottenere qualcosa in più” – dice un altro giovane. Sul piano delle attitudini richieste, “uno dei valori importanti è di essere flessibili – dice un giovane tedesco –: cioè adattarsi a situazioni nuove, spesso collegate con problemi”. E poi “essere creativo, prendere iniziative e portare qualcosa di più”, testimonia un suo collega belga.
Per quanto riguarda le donne, pur riconoscendo che ci sono leggi, strumenti e misure, gli intervistati riferiscono di una realtà quotidiana assai diversa, di difficoltà e ineguale trattamento, legato soprattutto alla maternità, alle retribuzioni, al peso dei carichi familiari.
“Quando sono diventata mamma ovviamente i miei orari sono cambiati – racconta una donne inglese – e non è stato possibile recarmi sempre in ufficio perché non avendo famiglia e non volendo lasciare il bambino con estranei ho preferito cambiare, lasciare il lavoro”. Una sua collega albanese: “Mi piace tanto lavorare e lavoro con tanta gioia, solo mi stanco molto con i lavori di casa. A casa ho troppo lavoro da fare. Nessuno mi da una mano e ho 3 uomini in casa. Appena finisco qui si comincia il lavoro a casa e vice versa senza sosta, senza respirare. A volte sono molto più contenta quando vengo a lavorare, perché quando mi siedo davanti alla macchina da cucire mi rilasso”.
Il lavoro rimane dunque per le donne europee uno strumento di emancipazione (“Non fare lavorare le donne è un modo per tenerle legate”) e di piena cittadinanza: “Il mio lavoro – racconta una donne inglese – mi dà la possibilità di sviluppare un’altra parte di me stessa, forse più privata, anche più creativa, diciamo è un’altra parte di me e mi mancherebbe se non l’avessi”.
Per quanto riguarda i giovani, spiegano i ricercatori, il quadro è ancora più fosco: quelli occupati, hanno di solito condizioni lavorative precarie; quelli non occupati si dibattono nella ricerca di un lavoro. Dalle numerose interviste realizzate si delinea il profilo di «una generazione sacrificata e condizionata dalle scarse tutele anche per l’avvenire. Una sorta di “buco nero” nella catena generazionale».
“Anche quando prima o poi la crisi finirà, laddove dovesse finire, ci saranno conseguenze per questa generazione, che non finiranno nel giro di pochi anni e che sono convinto ci trascineremo a vita. Chi oggi è un cassaintegrato, chi oggi è un precario, chi oggi non ha la possibilità di risparmiare, chi non ha la possibilità di costruirsi una famiglia, di costruirsi anche delle reti sociali stabili, di costruirsi un futuro previdenziale … è destinato a vivere una sorta di crisi permanente C’è questa generazione, che è una generazione di mezzo, che, continuerà a pagare un prezzo molto alto. Oggi pesa sulle spalle dei genitori e domani sarà una generazione che peserà sulle spalle dei figli” (Testimone, Italia)
Malgrado tutto ciò, scrivono i ricercatori delle Acli, «i giovani non smettono di aver fiducia nell’Europa, considerato uno spazio vitale e imprescindibile quando si parla di lavoro. Sottolineano però l’importanza di una accelerazione nella costruzione europea sotto il profilo sociale e politico, a riprova della incompletezza di un sviluppo unicamente economico».
Infine il tema della rappresentanza e della partecipazione. Tra gli intervistati prevale l’atteggiamento della delega: “Non so come funzionino – dice una donna inglese – però mi aspetterei di vedere riconosciuti i miei diritti rivolgendomi ad un sindacato”. Disimpegno e lontananza sono gli atteggiamenti più problematici, in cui ricadono coloro che non si sentono rappresentati e che per questo non sono stimolati a partecipare (“Non ho mai approfondito l’argomento, non ho mai avuto l’occasione di essere quantomeno informato a sufficienza o di trovarmi a partecipare”, giovane olandese). Eppure emerge – affermano i ricercatori - «il bisogno di nuovo modello di rappresentanza che vada oltre la delega e la militanza tradizionale, al quale arrivare attraverso un percorso di riconoscimento e superamento delle nuove forme di lavoro sempre più precarizzate e individualizzate».